La cosa più difficile da spiegare (a chi non c’era) è che in quegli anni, gli anni dei Beatles, quasi tutto era nuovo, e anche quando non lo era lo sembrava. Nuovo: l’aggettivo più impraticabile oggi che tutto, qui in Occidente, ci sembra vecchio, ripetuto, risaputo, consumato, e niente è più in grado di sorprenderci. Immagino che il mondo, dopo la seconda guerra mondiale, dovesse assomigliare a una sterminata tabula rasa. Città da ricostruire, vite da ricostruire, società da ricostruire. Ricominciare daccapo, lasciarsi alle spalle le macerie e le sirene dei bombardamenti, ripartire con le ali ai piedi e la certezza che il futuro, dopo quel massacro turpe, dopo l’olocausto razziale e quello nucleare, non potesse che essere migliore. Per forza migliore.(…)
(…)I Beatles non avevano inventato un ritmo nuovo e neppure un nuovo genere di melodia, o di canto, o di spettacolo. Ma avevano fuso in un crogiuolo perfetto, e alla temperatura giusta, e con la maestria compositiva di due colossali musicisti come Lennon e McCartney, tutto il meglio che allora girava per il mondo. Avevano portato a sintesi l’energia quasi imberbe delle voci giovanili, quelle voci “teen” che per la prima volta osavano sfidare il timbro virile dei crooners e della musica adulta; l’eros liberato, e liberatorio, dei ritmi post-bellici; il fascino “futurista” dell’elettrificazione, tanto che fu con loro che nelle vetrine di tutto il mondo, tra i sogni proibiti degli adolescenti invaghiti della musica, comparve la scatola grigia degli amplificatori (…)
da Repubblica-Espresso